È stato pubblicato su Hamelin Prog un lungo articolo di presentazione del nostro lavoro in uscita An Gorta Mór, con una mia intervista rilasciata all’amico Donato Zoppo della Synpress44. Grazie a Donato e a Francesca di Synpress44, ad Alex Ruggi e a tutta la redazione di Hamelin Prog per l’amicizia e per l’attenzione nei confronti del nostro lavoro.
Leggi l’intervista e l’articolo completo sul sito di Hamelin Prog.
Difficile intervistare gli Ifsounds: ogni album è una novità, un passo in avanti rispetto ai precedenti, ma anche un concept, una narrazione in musica da affrontare con attenzione. Partiamo proprio dal lungo percorso in evoluzione della rock band molisana. An Gorta Mòr è il vostro sesto album: immaginavate anni fa che sareste arrivati a questo punto?
In realtà ci speravo, più che crederci. Anni fa lavoravamo come una studio band, anche se poi a ben guardare, spesso i membri della band erano meri esecutori delle mie idee musicali. Questo era un grande limite per la nostra musica e aveva creato una strana comfort zone da cui siamo usciti solo con il radicale cambio di formazione e con la trasformazione in band “vera” e attiva anche live. Tutto ciò è avvenuto a partire dal nostro penultimo album Reset uscito nel 2015 e continua con An Gorta Mór. Solo adesso gli ifsounds stanno diventando quella band che cercavo di costruire insieme agli altri ragazzi da tanti anni.
Il vostro precedente album Reset aveva segnato un cambio di rotta nel vostro cammino: nuova formazione, taglio più rock, distacco rispetto a certe atmosfere progressive a voi care. È stato solo un episodio isolato?
Reset era un album necessario in quel determinato momento storico della nostra band, ma è anche il lavoro che secondo me rappresenta meno il nostro sound. Proprio quella necessità di “suonare da rock band” ci ha portato a scelte stilistiche lontane dal nostro modo di concepire il rock e il prog rock, soprattutto negli arrangiamenti e nel trattamento della batteria che rispecchiavano il vissuto musicale dell’amico Gianni Manariti che suonava in quel lavoro. La sua presenza è stata fondamentale per dare nuovo slancio al progetto, ma è altresì evidente che Lino Mesina, il nostro nuovo batterista, è molto più vicino alla nostra sensibilità musicale di quanto lo sia Gianni, quindi è stato facile tornare insieme a lui a un discorso più prog. Quindi ritengo Reset un episodio isolato, anche se ci ha insegnato un nuovo linguaggio e un nuovo approccio che hanno ulteriormente arricchito la nostra paletta di colori e che comunque ci sono stati utili durante la composizione, l’arrangiamento e la registrazione di An Gorta Mór.
Ifsounds è una delle poche band italiane a “pensare concettualmente”. Il nuovissimo An Gorta Mòr è un concept, mai come questa volta dal taglio “politico”. Spiegateci tutto.
Era inevitabile. I nostri primissimi album erano disegnati su concept più filosofici e sfumati, a volte troppo. Lo stesso Red Apple era legato al mio romanzo Mela Rossa ed era di difficile fruizione per l’ascoltatore casuale che non avesse familiarità con la storia. Reset, invece, ha una forte matrice autobiografica e dal punto di vista concettuale, oltre che da quello musicale, aveva il compito appunto di resettare il discorso ifsounds e farlo ripartire seguendo una linea più chiara. Da queste premesse nasce An Gorta Mór, un album che ha come filo conduttore la fuga dal dolore. Il dolore può essere una guerra, una famiglia “sbagliata”, la disperazione, la fame. In fondo An Gorta Mór significa proprio “la grande carestia” e fa riferimento all’olocausto irlandese di metà XIX secolo che portò l’isola a perdere circa un terzo dei suoi abitanti tra morti per denutrizione ed emigrati in fuga dalla fame, che scelsero di affrontare viaggi della speranza in condizioni terrificanti per garantirsi un futuro, e non un futuro migliore, intendo dire proprio un futuro. È evidente che 170 anni dopo le cose non sono cambiate molto, ma si sono solo spostate geograficamente.
Dalle Dust Bowl Ballads di Woody Guthrie al rabbioso piglio di Roger Waters, passando per le riflessioni dei Camel di Harbour Of Tears, il tema delle migrazioni è stato affrontato con spirito diverso a seconda della sensibilità artistica e del periodo storico. Qual è la peculiarità della vostra lettura?
Solo a leggere i nomi degli artisti citati arrossisco: magari riuscissimo ad esprimere solo un decimo della loro arte! Il tema delle migrazioni è a me molto caro, tant’è che già lo affrontai in una vecchia canzone (Summer Breeze, pubblicata su Apeirophobia nel 2010). Allora parlavo della mia esperienza di emigrante in giacca e cravatta e cercavo di disegnare un bozzetto psicologico ed emozionale di chi già è costretto a vivere all’estero, come me in quel periodo. In An Gorta Mór mi sono spinto oltre, cercando di descrivere la sensazione di disperazione che porta la persona ad affrontare il viaggio e soprattutto il dolore fisico del viaggio stesso: il viaggiatore di Summer Breeze rifletteva seduto comodamente in un aereo, mentre i tragici protagonisti di Mediterranean Floor e di An Gorta Mór attraversano il deserto a piedi e l’Oceano Atlantico su quelle che in inglese si chiamano “coffin ships”, ovvero “navi-bara”. Ed è questo il punto di partenza del concept: a che grado di disperazione bisogna arrivare per affrontare un viaggio del genere? Nel disco cerchiamo di parlare di questo, ma non solo: un altro brano parla di violenza domestica e delle dinamiche malate che si creano nella vita di coppia, in un altro di una ragazza prigioniera di una famiglia che la costringe a una vita che non sente sua e scappa di casa, in un altro ancora delle seduzioni dei guru digitali che promettono fantastici guadagni su internet per sfuggire a un quotidiano fatto di disoccupazione o di occupazione degradante. Il filo conduttore è quello che in marketing è definito “fuga dal dolore”: per i commercianti è uno dei motori più potenti per la riuscita di un prodotto o servizio, mentre noi con brani di An Gorta Mór cerchiamo di scavare in questo dolore per ritrovare l’essenza dell’uomo.
Un tempo musica e politica, musica e impegno sociale, mandavano di pari passo, oggi invece – in tempi di estrema polarizzazione – questo sembra un accostamento pericoloso. Non è ora che il grande rock e i suoi eredi riprendano quei temi?
Sicuramente erano bei tempi per la musica prodotta, anche se all’epoca in Italia si finì con esagerare con la politicizzazione… in fondo siamo pur sempre una nazione di tifosi, qualunque cosa facciamo. Oggi si esagera in senso opposto e la musica mainstream è caratterizzata da un disimpegno totale, o nella migliore delle ipotesi, dall’introspezione un po’ finta e ruffiana di certo indie di successo. Il rock-con-un-messaggio non esiste più, forse perché gli artisti hanno troppa paura di esporsi, o forse, come sostengono i critici più acidi, perché non esiste più il rock. Del resto c’è un forte appiattimento della musica soprattutto live verso il fenomeno delle cover band, che asseconda un certo modo “pigro” di pensare da parte del pubblico. Ma la colpa non è del pubblico, ma della proposta musicale e soprattutto dei grandi media che sono molto più conservatori oggi che 40-50 anni fa: negli anni ‘70 gli Area erano un gruppo molto popolare, nonostante fossero fortemente politicizzati e suonassero musica spesso avantgarde. Oggi una band come gli Area avrebbe un’esposizione e un successo infinitamente minore. Del resto il clima culturale e politico che ci circonda fa davvero paura e noi stessi, che pure non abbiamo certamente un’esposizione mainstream, abbiamo avuto delle riserve sul proporre certi temi: in fondo non è che abbia tutta questa voglia di essere insultato sui social dai famosi leoni da tastiera! Alla fine però è prevalso un certo senso civico e umanistico: io ad esempio non ho mai avuto la tessera di alcun partito, né ho mai fatto propaganda politica per nessuno, neppure a livello di elezioni comunali, ma di fronte a certe tematiche universali ritengo che il dramma dell’uomo debba avere voce. Ovviamente non ho la pretesa di avere io la soluzione ai problemi, non ritengo di essere all’altezza, altrimenti cercherei di entrare nelle istituzioni per risolvere i mali del mondo, ma da artista non posso accettare la deriva di chi percepisce l’altro sempre e solo come un nemico e non più come semplicemente un altro uomo. Credo che questo principio dovrebbe essere banale senso civico, ma oggi sembra quasi un’assurdità.
In tempi di playlist sempre più spezzettate, usa e getta, cosa significa esprimersi nell’ampio respiro del concept album?
Significa andare in direzione ostinata e contraria! Lo è fare musica originale prog rock in tempi di reggeaton, cover band e hip hop per adolescenti. Del resto siamo cresciuti in un’epoca in cui avevamo un rapporto quasi viscerale con i nostri miti musicali e con le loro opere. Oggi sarebbe molto più facile avere un rapporto diretto con grandi artisti, ma il pubblico è diventato distratto e un po’ facilone, e il mercato si è adeguato. La nostra speranza è quella di stringere sempre di più il rapporto con un pubblico quanto più simile possibile a quello che voluto avere noi con i nostri miti da ragazzi. Ovviamente è difficile che un ascoltatore casuale, un amante del pop attuale possa soffermarsi o avere interesse nei riguardi degli ifsounds, ma forse a lui non avremmo neppure un granché da dire!
Per questo disco avete potuto contare anche su ospiti di varia estrazione, quali sono i motivi di questa scelta e chi sono gli special guest?
Sono innanzitutto degli ottimi amici con cui da tempo condividiamo passioni musicali. Il primo che voglio citare è il tastierista Lino Giugliano, musicista di grandissimo livello e personalità che dopo le registrazioni di An Gorta Mór ha cominciato a collaborare con la band nei live e che con ogni probabilità entrerà a far parte stabile della nostra formazione. La suite An Gorta Mór è un brano corale con molti personaggi: uno è uno spietato trafficante di esseri umani e lo ha interpretato magistralmente il nostro grande amico Vincenzo Cervelli (Acid Tales, Eva’s Bullet), mentre, parlando di Irlanda e di suggestioni celtiche, non potevamo non pensare ai maestri assoluti del genere, gli Hexperos, musicisti straordinari e ottimi amici; Alessandra Santovito ci ha regalato un cammeo meraviglioso con la sua voce incredibile, mentre Francesco Forgione ha suonato per noi il bhodrán. Al violino abbiamo chiamato un giovanissimo talento dal Conservatorio di Campobasso, alla sua prima registrazione rock. Infine va menzionata la partecipazione dell’amico Marco Grossi nel coro finale e il bellissimo lavoro grafico dell’artista Fabienne Di Girolamo che per la seconda volta ha disegnato per noi la copertina del nostro album.
La vita degli Ifsounds è intrecciata all’attività artistica del fondatore Dario Lastella, reduce dai buoni riscontri del suo libro Mela Rossa. L’ambientazione distopica e anch’essa politica in senso lato quanto influenza il songwriting degli Ifsounds?
Mela Rossa/Red Apple era un progetto molto ambizioso, forse non pienamente riuscito dal punto di vista musicale, ma che dal punto di vista letterario mi ha dato grandi soddisfazioni. Certo che oggi mi piacerebbe ri-registrarlo con la nuova formazione, perché probabilmente la crisi della band e mia personale del 2012 ci ha impedito di ottenere il massimo da quelle composizioni. Per quanto riguarda la relazione tra le tematiche politico-distopiche e la nostra musica devo dire che probabilmente rispecchiano un mio “difetto artistico”: tendo a sentire l’esigenza di scrivere di cose che non mi piacciono e in qualche modo mi angosciano, mentre trovo estremamente difficile scrivere di quanto sia bello qualcosa. Ritengo che la musica e l’arte in genere abbiano anche, se non soprattutto, il ruolo di strumento di denuncia. In questo senso mi sento molto vicino ai Maestri degli anni ‘70, sia italiani che no. E poi, in fondo, quando si vive una bella esperienza è meglio godersela a pieno e non scriverci su una canzone. Personalmente ho sempre trovato estremamente noiose le canzoni che parlano di quanto sia bella la vita con l’amata/o… forse sono solo poco romantico!