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Reset su L’Isola che non c’era

Febbraio 3, 2016 - Album reviews

Ottima recensione di Andrea Romeo su L’Isola che non c’era.

A tre anni dall’uscita di Red Apple, e cinque dal precedente Apeirophobia, tornano a farsi sentire gli IfSounds ed il titolo del loro nuovo lavoro Reset ha numerose peculiarità che vale la pena di analizzare, partendo intanto dalla formazione, pressochè completamente rinnovata e che vede la presenza di due soli fra i membri storici, ovvero Dario Lastella, chitarre, tastiere e voce, e Claudio Lapenna, pianoforte, organo, tastiere e voce. Intorno a loro una nuova band, con tutto ciò che questo necessariamente comporta, ovvero nuovi rapporti, nuovi approcci musicali, nuovi stili esecutivi ed il sound del gruppo che ovviamente va a mutare anch’esso. Casualità, forse, ma molto più probabilmente una vera e propria necessità e intenzione di modificare qualcosa, di dare un seguito logico ai lavori precedenti, che però porti la band a staccarsi almeno in parte da quanto già realizzato: se la parola progressive, associata alla band già dagli anni ’90 e che aveva trovato una sua piena espressione nei due lavori precedeni, ha davvero un senso, tale senso andava necessariamente perseguito e valorizzato. C’era bisogno di andare oltre, di sviluppare nuovi discorsi musicali, di non ripetere se stessi, in sintesi di progredire.

L’innesto di Fabio De Libertis al basso e di Gianni Manariti alla batteria ha dato alla band l’occasione di effettuare una svolta, decisa, in chiave rock-blues, andando a ripescare un approccio molto “anni ‘70” e la voce di Runal, che prende il posto occupato precedentemente da voci femminili, ha il timbro giusto per impostare un rock più diretto, sicuramente meno “aereo”. In sintesi un rinnovamento nel solco della tradizione, una sorta di alleggerimento che permette agli Ifsounds di non tornare sui loro passi ma di affrontare il mondo musicale a loro più congeniale semplicemente da un punto di vista differente. Cambia l’ottica, certo, ma restano i legami di fondo con un decennio che è, a tutt’oggi, la maggiore fucina di stili, generi e sollecitazioni sonore.

Sono distanti, almeno nelle intenzioni, i tempi delle lunghe suite come Apeirophobia, anche se strumentalmente le strutture dei brani, pur avendo una maggiore linearità, mantengono quella complessità di fondo all’interno della quale ogni strumento riesce a dire la propria in modo compiuto e significativo. Accade sia in pezzi come Io non volevo odiarti, diretto ed ai limiti del metal, all’interno del quale esiste una ricercatezza che i decibel e l’impatto che generano non riescono comunque a nascondere; oppure in altri decisamente agli antipodi, come Scappa via, una ballad se vogliamo assolutamente classica. Ciò che si nota, già dal primissimo ascolto, è il fatto che la band molisana non si è assolutamente dedicata ad una semplificazione fine a se stessa: ha sì eliminato qualche sovrastruttura ritenuta probabilmente non più necessaria, ma non ha minimamente diminuito lo spessore del proprio lavoro: la presenza degli Hexperos, fiati ed archi assai noti nel mondo del gothic-folk barocco europeo, dimostra che, pur in forma differente, certi legami con la propria storia restano indissolubili. Lo strumentale Reset conferma, inequivocabilmente, che questa relazione fra la musica di ieri e quella di oggi è ancora fortissima.

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