La webzine Arlequins torna a occuparsi di noi con la recensione di An Gorta Mór a cura di Peppe Di Spirito.
Nati semplicemente come If, gli Ifsounds adottano quest’ultima denominazione nel 2009 e, superati vari cambiamenti di organico, arrivano a presentarsi nel 2018 con un classico quintetto (ma anche con ospiti che intervengono con violino, bodhran, parti vocali e integrazioni di tastiere) impegnato nel concept album “An gorta mor”, il cui tema di fondo è di grande attualità essendo basato sulle migrazioni, sulla fuga dalle terre natie alla ricerca di mondi migliori. Da sempre questa band ha mostrato di non voler seguire una strada ben precisa, pronta a cimentarsi in generi diversi anche all’interno di uno stesso disco, ma con le caratteristiche progressive rock sempre in evidenza.
Il primo brano del nuovo parto, “Mediterranean floor”, è subito arrembante, con ritmi velocissimi e chitarra distorta e feroce. Nella parte centrale c’è un cambiamento che porta ad un sound più rilassato prima del finale guidato da un guitar-solo molto bello. Sorprende questa partenza imparentata con il metal e non convince il suono che ne esce, poco limpido e confuso; non si capisce se è una scelta di produzione o se è una carenza della registrazione. La breve “Techno guru” porta in territori diversi, con un jazz-rock stravagante e precede “Violet”, sorta di ballad guidata dalla chitarra acustica. Ancora un cambiamento con “Reptilarium” che spinge verso un hard rock psichedelico dal sapore anni ’70, che vede come muse ispiratrici Jimi Hendrix e i Doors. Si arriva al pezzo forte del cd con la title-track conclusiva, una suite di ventidue minuti. Manco a dirlo, è un altro cambiamento drastico. Un cinguettio di uccelli fa da preludio ad una partenza dai connotati folk, verso i due minuti e mezzo le cose si vivacizzano un po’ con la sezione ritmica che spinge sull’acceleratore e le tastiere che lanciano suoni e timbri da space-rock, un po’ à la Ozric Tentacles. Seguono intriganti impasti di suoni acustici ed elettrici prima di un ritorno ai sapori folk iniziali. La chitarra elettrica porta in territori più floydiani e c’è un’ulteriore variazione quando un riff prorompente spinge verso gli Uriah Heep più progressivi. Ci sono ancora spunti classicheggianti col piano protagonista, ritorni al folk, un intermezzo lirico con tanto di soprano, accelerazioni strumentali vigorose, cambi di atmosfera, fino ad un finale epico. Tanta, troppa carne al fuoco; eppure, nonostante questi continui cambiamenti di stile e di riferimenti, la suite scorre abbastanza bene, si lascia ascoltare con un certo piacere e chiude l’album sicuramente in maniera più che dignitosa.
Le idee, in effetti, non mancano, ma sembra che in più di un’occasione nemmeno la band sia sicura sulla direzione da intraprendere, senza dimenticare che la qualità di registrazione sembra piuttosto carente e dà quell’impressione del “casalingo” che oggigiorno si potrebbe evitare facilmente. Disco sufficiente, con più di un rammarico.